La Mostra Mercato Nazionale del Tartufo Bianco di San Miniato

Un profumo inebriante per le vie di San Miniato. La festa dei profumi. Si respira nelle piazze del centro dal 1969 ogni anno negli ultimi tre week di novembre ed è un profumo sopraffino, intenso, che coinvolge i sensi. Un profumo e un sapore che fanno muovere buongustai, visitatori, gourmet, food blogger, giornalisti e semplici curiosi.  Ogni anno sempre di più. In tutto centomila, si stima.  La Mostra Mercato di San Miniato è una delle manifestazioni più importanti del panorama nazionale e note quando si parla di Tartufo Bianco ed è a tutti gli effetti un festival dei sapori del territorio. E' anche un festival dei saperi, sintesi dell'apporto del movimento delle Città Slow, dello Slow Food, delle città italiane ed estere gemellate che ogni anno qualificano la manifestazione. Ma Tartufo non è soltanto gusto inimitabile: è anche mercato e cultura locale. San Miniato si trasforma nel più grande laboratorio dei sapori a cielo aperto d’Italia, dove fanno da corona al Tartufo Bianco, esposto nel luogo di maggior pregio, i mercati delle altre piazze, dove i prodotti tipici sono offerti insieme alle specialità delle altre città del gusto italiane. Vere e proprie eccellenze dell’agroalimentare. Ma la Mostra Mercato diventa anche proposta e lo fa ogni anno con gli chef, i norcini e i ristoratori che animano la città e propongono le nuove tendenze della cucina e le nuove alleanze del gusto. Ma non è che l'acme di questa straordinaria offerta stagionale. La manifestazione termina con l’assegnazione del Tartufo d’Oro, premio riservato al tartufaio che ha trovato, fatto pesare e registrato il tartufo bianco più grande della stagione.


© Riccardo Buti e Fabrizio Mandorlini - Oro Bianco. Il Tartufo di San Miniato - Fm Edizioni
















Un marchio “fantastico” che guarda il cielo


E’ un marchio che viene dal glorioso passato della città quello che rievoca il Tartufo Bianco delle Colline Sanminiatesi. E’ di proprietà dell’Associazione Tartufai delle Colline Sanminiatesi ed è stato ricavato da un bacino ceramico collocato sulla facciata del duomo di San Miniato.
Ma analizziamo i bacini inseriti nella facciata del duomo per capire meglio le “origini” e il significato del bacino da cui è stato ricavato il marchio. Tutti i bacini (escluso uno) presentano un impasto dalle tonalità del cuoio chiaro, con sfumature rosso mattone giallastro solo nelle zone di maggior spessore, piuttosto grossolano, poroso, non eccessivamente duro, ricco di quarzo. I colori usati per la decorazione sono il blu di cobalto e il bruno di manganese stesi su un fondo a smalto bianco oppure il bruno su un fondo a smalto verde. Il rivestimento a smalto ricopre anche le superfici esterne ma generalmente solo in modo parziale. Gli elementi decorativi presentano, nei pezzi di dimensioni maggiori, un particolare fascino nelle raffigurazioni animali, nell’eleganza degli intrecci, nelle composizioni geometriche.
I segni grafici che adornano i bacini sono di svariati tipi: dalla rappresentazione di animali fantastici e quadrupedi, a forme ovali con fiori stilizzati, a motivi a zig-zag. Una notevole uniformità e semplicità si osserva invece in quelli di piccole dimensioni. Analisi chimiche e mineralogiche degli impasti, oltre a confronti con reperti di altre provenienze, consentono di affermare che ci troviamo di fronte ad una ceramica fabbricata in area tunisina. La provenienza da questa regione non contrasta con quanto sappiamo a proposito dei rapporti politici e commerciali di questo territorio con le principali città portuali islamiche dell’Africa del nord corso dell’XI e del XII secolo in quanto si diffusero parallelamente allo sviluppo della Via Francigena. Non dimentichiamoci poi della vicinanza di Pisa, autentica potenza marinara con cui la zona di San Miniato aveva frequenti rapporti commerciali.
I bacini del duomo vanno riferiti alla fine del XII secolo o al massimo ai primissimi anni del XIII. Molto interessante la disposizione dei bacini sulla facciata del Duomo sulla cui interpretazione proponiamo la versione più accreditata.
La stella bianca e verde al somme del fastigio sta ad indicare la stella polare, punto di riferimento e guida ai naviganti, ai fedeli ed i bacini delle due zone sono raggruppati secondo il disegno delle costellazioni, dei carri delle Orse; quindi la facciata, se battuta dal sole, doveva riverberare – e riverbera - per la cristallina dei bacini, gli splendori della volta celeste. Le chiesa terrena, come il regno eterno, la stella polare e le Orse poste a trasfigurare similitudine e concetto. La paternità federiciana dell’idea teologica del cristiano-pellegrino navigante, orientato dalla stella polare (la chiesa), e dai carri delle orse (il cielo-paradiso, meta ultima del viaggio), è riecheggiata più tardi da Dante, nello spirito del tempo: “Tu vedesti il Zodiaco rubecchio anocra a l’Orse più stretto rotare se non uscisse fuor del cammino vecchio” (Purg. IV, vv.64, 65, 66). Federico II era coltissimo, in queste scienze, tanto che per fargli un dono gradito, un sultano gli aveva mandato un orologio o un “planetario”. Per favorirne la conservazione, con la nascita del Museo diocesano d’Arte Sacra, i  bacini vennero disalveati dalla facciata, restaurati e collocati all’interno del museo, mentre nella facciata del Duomo furono incastonate delle copie. Il bacino classificato con il numero quattro, quello che ci riguarda da vicino, ha un diametro di cm. 30,4, una profondità di cm. 7,2 e un’altezza di cm. 9,8.

La forma è a calotta quasi regolare con bordo assottigliato; alto piede ad anello. Decorazione a cobalto e manganese. Nel campo un animale fantastico con il corpo suddiviso in settori. Nella descrizione, a livello di marchio, l’animale è idenficato come “quadrupede fantastico con una lunga coda reclina fino sopra la testa.




















© Riccardo Buti e Fabrizio Mandorlini - Oro Bianco. Il Tartufo di San Miniato - Fm Edizioni

I Comuni e l’area delle colline sanminiatesi


E’ nel cuore della Toscana che si trova il Tartufo Bianco delle Colline Sanminiatesi, nelle province di Pisa e Firenze e il suo vasto areale raccoglie trenta comuni che hanno in San Miniato il centro principale di riferimento.  La raccolta totale annua è di circa 80 quintali annui, cento nelle stagioni migliori, che fanno una quota di mercato che oscilla dal 20 al 25% della produzione nazionale di Tartufo Bianco Pregiato.
A San Miniato l’area collinare a sud, tra colline sinuose e fondovalli nebbiosi e umidi, sono i luoghi dove cresce il tartufo e ha il suo habitat naturale, in luoghi incontaminati. Ecco che i nomi dei poderi, i toponimi e le valli dove scorrono i torrenti Egola, Ensi e Chiecina, sono diventati noti nella stessa misura in cui in Francia sono noti i cru dei vini più pregiati. Nel 2012 i tartufai in Toscana sono 4644 di cui 1200 nella provincia di Pisa.

© Riccardo Buti e Fabrizio Mandorlini - Oro Bianco. Il Tartufo di San Miniato - Fm Edizioni

Il Tartufaio è una figura unica


E’ abbastanza facile trovare riferimenti al Tartufo nella storia e nella letteratura, come descrizione, ricette, ma la ricerca del Tartufo Bianco a San Miniato non è altrettanto antica. Dai ricordi tramandatici sappiamo che da sempre nei boschi, ma anche lungo i fossi di scolo e i campi coltivati, venivano trovati questi tuberi, soprattutto dai maiali che ne erano ghiotti e che, grufolando liberi, ne facevano delle vere scorpacciate.
Fra la fine ‘800 e l’inizio ‘900 per vari motivi arrivarono in questa parte del territorio personaggi provenienti dalla Romagna. Forse erano taglialegna oppure operai esperti in bonifica, fatto sta che questi a un certo punto portarono i loro cani, quasi certamente progenitori degli attuali Lagotto, cani “specializzati” nella caccia in ambienti paludosi e nella ricerca, e cominciarono a cercare nella zona il tartufo che era molto diffuso grazie anche alle tecniche di coltivazione che venivano attuate, essendo la campagna organizzata con il sistema della mezzadria. Erano anni in cui in quasi tutti i botrelli, in quasi tutti i fossi, anche dei campi coltivati, sotto quasi tutte le piante idonee alla micorrizzazione, era possibile trovare tartufi.
I nomi, ma soprattutto i soprannomi, secondo l’usanza tipica del passato, di alcuni di questi sono ormai entrati nella storia di San Miniato: Tego, Paolo, Stagnazza, Giacchetta...
I trasporti in quegli anni erano difficili e non privi di rischi, pertanto quando rientravano al loro paese questi forestieri lasciavano i loro cani presso le famiglie del luogo, che li accudivano fino al loro ritorno nell’anno successivo. Ovviamente le famiglie ospitanti, viste le capacità dei cani, cominciarono ad incrociarli con i cani del posto e ad andare a loro volta a far tartufi.
Il primo tartufaio del posto era pertanto il contadino impiegato come mezzadro in fattoria, molto legato al territorio che non aveva bisogno di spostarsi se non di pochissimo.
L’attività si sviluppò e in ogni famiglia residente nei numerosi borghi di San Miniato si trovava sempre una figura di tartufaio, attività che costituiva una fonte di integrazione del misero reddito come la tenuta di polli o galline per vendere la carne o le uova, e procurarsi il necessario per la carne la domenica, un paio di scarpe nuove, la dote alla figlia.
C’è da dire che l’appellativo di tartufaio non dava in quel periodo un particolare lustro, anzi il tartufaio era considerato spesso un poveraccio, perché in un periodo in cui c’erano da compiere i principali lavori nei campi (siamo fra settembre e dicembre) con il freddo e le gelate questo si alzava prestissimo per andare a tartufi per pochi soldi.
Nel secondo dopoguerra e più precisamente negli anni Sessanta il sistema mezzadrile entra in crisi, l’industria assorbe la maggior parte della forza lavoro proveniente dalle campagne e di conseguenza il tartufaio non è più il mezzadro, ma è l’operaio cui è rimasta la passione e quindi continua ad andare a tartufi, come continua ad andare a caccia o a pesca.
Nel tempo la figura del tartufaio è ulteriormente mutata e questo a partire dagli anni Ottanta. La promozione del tartufo, una più sviluppata coscienza ambientale, la necessità di riscoprire la natura, mista ad una sfida che ha qualcosa di misterioso ed appassionante han fatto in modo che alla ricerca del tartufo si siano avvicinate anche persone che tradizionalmente erano lontane da questo mondo: il cercatore di tartufi abita in paese o in città e per andare a tartufi prende le ferie oppure limita le sue uscite al sabato o alla domenica. Spesso l’approccio alla ricerca si limita alle prime fasi, ossia la richiesta di abilitazione alla ricerca e il suo conseguimento. Molti infatti sono coloro che, una volta ottenuta l’abilitazione, non richiedono il rilascio del tesserino; inoltre molti che lo ottengono dopo poco cessano l’attività. Attualmente la Legge Regionale n. 50 dell’11 aprile 1995, prevede infatti che l’aspirante tartufaio debba sostenere un esame di fronte a una apposita commissione costituita presso l’amministrazione provinciale di residenza, commissione che ne accerta l’idoneità, in particolare riguardo alla conoscenza della biologia del tartufo, a nozioni di botanica, alla normativa vigente e alle tecniche di raccolta. Una volta conseguita l’idoneità il tartufaio “in pectore” richiede al comune di residenza il rilascio del tesserino che sancisce il diritto ad effettuare la ricerca.
Oggi il tartufaio è anzitutto un grande “passionista” e per questa passione supera i disagi e gli impegni che la stessa comporta a fronte della soddisfazione di “bucare” e sentire prima ancora di vederlo, l’inconfondibile odore del prezioso tubero; inoltre, al di là di quello che le norme stabiliscono, compreso le sanzioni nei casi di infrazione, il vero tartufaio ha una grande sensibilità verso l’ambiente, sensibilità che lo porta ad adottare i comportamenti rispettosi: è quindi poco invasivo nelle sue uscite perché sa che l’ambiente del Tartufo Bianco è delicato, non danneggia il terreno o la vegetazione perché conosce le negative ripercussioni sulla produzione, ricopre le buche perché è consapevole che sotto c’è il micelio, “la funga”, che produce il tartufo e che lasciando la buca scoperta questa secca, tiene il cane sotto controllo perché il cane che raspa lontano dal padrone non è controllabile, si “vòta” (in italiano “si svuota”) le tasche all’inizio di ogni uscita dei pezzetti di tartufo che ci sono rimasti nella speranza che la disseminazione delle spore favorisca l’insediamento di nuove tartufaie, se vede un pezzo di legno di traverso a un fosso lo rimuove perché l’acqua deve correre e non ristagnare, e tanti altri comportamenti virtuosi che, nel folto della macchia, nessuno può controllare, se non lo stesso vero tartufaio.




















© Riccardo Buti e Fabrizio Mandorlini - Oro Bianco. Il Tartufo di San Miniato - Fm Edizioni

Per trovare i tartufi serve un Cane Campione

“Andar per tartufi” non è cosa da tutti, quasi sempre si tratta di una capacità che si tramanda di generazione in generazione e di famiglia in famiglia, così come da anni a San Miniato.
Nei secoli passati la tradizione dice che per trovare i tartufi veniva utilizzato il fiuto dei maiali, poi, a fine Ottocento, alcuni emiliani e romagnoli, soprattutto tagliaboschi, avevano rapporti commerciali con Pisa e Firenze, e fermandosi a San Miniato per lavoro, conobbero questo territorio.
Scendendo con i loro cani andavano a fare tartufi e poi lasciavano i loro cani alle famiglie contadine della zona. Fu così che i contadini locali impararono l’arte di andare a far tartufi con il cane e incrementare così i loro miseri guadagni, pur essendo, a quei giorni il tartufo un bene considerato di scarso valore.
Le storie di queste famiglie sono legate indissolubilmente non solo agli uomini ma anche a quei cani che fedelmente si accompagnano al loro padrone alla ricerca di un tesoro nascosto nel sottobosco delle colline sanminiatesi.
Il lavoro della cerca è infatti l’espressione massima dell’armonia tra uomo e cane, un rapporto ancestrale in cui si condividono amicizia, fatica, disagi (ci si alza molto presto la mattina e la ricerca si effettua nel freddo dei mesi invernali) e che trasforma il cane nella proiezione del tartufaio, un suo prolungamento fisico e psichico.
Nell’addestramento il cane vive l’esperienza all’inizio come un gioco, poi crescendo la sviluppa nel suo istinto innato, la caccia, istinto indirizzato in questo caso non verso una preda ma verso il prezioso tubero. Per questo gli allevatori, secondo una tecnica affinata con l’esperienza, abituano il cane fin da piccolo all’odore del tartufo associandolo con il cibo e con la ricompensa, comunque commestibile: quando il cane sente l’odore del tartufo deve associarlo al cibo, un tempo era un pezzo di pane oggi un biscotto, comunque un premio per il successo della ricerca. Successivamente si nascondono dei piccoli tartufi a fior di terra e si incomincia a insegnargli a trovarli; ma il vero battesimo avviene in bosco dove il cane deve concretizzare quello che ha imparato. Spesso al cane giovane viene affiancato un cane più esperto, affinchè imiti quello che fa quest’ultimo.
Le prime uscite a volte sono effettuate sulla “marcia”, ossia le produzioni di Tartufo Bianco fuori stagione (luglio – agosto), di scarsa qualità che marcisce subito per le alte temperature (da cui deriva il nome) e che non viene raccolto ma serve solo per l’addestramento, altre volte la ricerca viene perfezionata sul marzuolo, tartufo di scarso pregio ma che ha produzioni numericamente elevate e quindi abitua il cane alla ricerca.
Cosa fondamentale che tutti gli allevatori devono tenere presente nella fase di addestramento, ma che anche i tartufai non devono dimenticare nella ricerca in bosco, è che ogni cane ha la sua psicologia e il suo modo di agire, sia nella cerca che in ogni altro comportamento. E’ fondamentale pertanto che il padrone si adatti al cane e non viceversa. Quando il cane inizia la sua caccia e si avvicina alla ”preda”, secondo un rituale tutto proprio, pianta il muso nella terra, annusa tra i cespugli, torna sui suoi passi e poi annusa ancora. All’improvviso l’olfatto e l’istinto lo fanno andare nel posto giusto, inizia a raspare, a guaire, a girare in tondo per richiamare l’attenzione del suo padrone. Il tartufaio che conosce il proprio cane percepisce il segnale e arriva, inizia a zappare con dolcezza e crea una piccola buca. Ci sono cani che aspettano accanto il momento in cui l’uomo estrarrà il tartufo con le mani, lo annuserà e percepirà il suo intenso profumo, ci sono poi cani che con il tartufaio scatenano una competizione a chi lo scopre prima e tenerlo lontano è lotta improba.
E così per anni cane e tartufaio si incamminano su sentieri che solo loro conoscono, tracciati dall’esperienza che li conduce tra settembre e dicembre in una sfida entusiasmante, fino alla fine della carriera, allorquando, dopo l’ultimo tartufo trovato, The Last Hurrah, ormai non più adatto a sopportare le fatiche della ricerca, viene accudito e curato amorevolmente fino agli ultimi giorni.
Per quanto riguarda le razze riconosciute per la ricerca del tartufo e come tali iscritte ai libri genealogici attualmente ce n’è solo una: il Lagotto romagnolo. La razza è stata iscritta all’Ente Nazionale per la Cinofilia in Italia nel 1992 e alla Fédération Cynologique Internationale nel 2005. Molto interessante in proposito è confrontare lo standard di razza del Lagotto con quello dei cani ritratti a San Miniato nelle fotografie di fine Ottocento.

A livello locale molto utilizzati dai tartufai anche cani meticci dall’incerto pedigree o soggetti di razze cosiddette autoctone o locali: questi cani hanno un aspetto complessivamente uniforme, ma con caratteristiche non stabili e standard variabile, e pertanto non sono razze riconosciute; ciò che li accomuna è la discendenza da linee di sangue di ottimi cercatori. La taglia di questi cani è medio – piccola con un aspetto che a volte ricorda il lagotto, anche per il pelo riccio o spigato, altre volte l’Epagneul breton.
Per la ricerca del tartufo si possano inoltre impiegare anche altre razze, i cani più adatti sono il Barbone, il Pointer, lo Spinone, il Bracco italiano, varie specie di Terrier, il Griffone e il Labrador.
Guardare all’opera il tartufaio ed il suo cane è l’unico modo per comprendere quale è la sintonia e l’intesa che si crea tra uomo e animale ma soprattutto si capisce che solo se esiste questo legame è possibile trovare quei tartufi che poi andranno a finire sulle nostre tavole. Il cane da tartufi più noto e famoso si chiamava Parigi e fiutò nell’autunno del 1954 il tartufo più grosso del mondo: un tartufone di 2 chili e 18 tacche.

© Riccardo Buti e Fabrizio Mandorlini - Oro Bianco. Il Tartufo di San Miniato - Fm Edizioni







Perchè il Tartufo Bianco cresce a San Miniato


Il tartufo è spesso chiamato l’oro bianco della terra, o anche diamanti della tavola. Perché questi accostamenti cosi particolari? Prendiamo ad esempio i diamanti. Essi sono composti da un unico elemento: il carbonio. Questo elemento, insieme ad altri e in particolari condizioni, è diventato il fulcro per una serie di molecole più complesse da cui è scaturita la vita, che si è evoluta nel tempo in tutte le sue forme, essere umano compreso.
Nelle epoche preistoriche ci sono state forme di vita vegetali che hanno colonizzato il pianeta, crescendo e sviluppandosi, finchè non sono morte; nel tempo sono state sepolte da strati successivi di terreno e si sono lentamente trasformate, diventando carbone. Nel sottosuolo questo carbone, quando si è trovato sottoposto a pressioni elevatissime a seguito degli spostamenti della crosta terrestre, è mutato ancora e si è trasformato in diamanti. Ecco quindi che la concomitanza di una serie di fattori ha portato alla formazione, in talune località della terra ben localizzate, di qualcosa di unico e molto prezioso.
Qualcosa del genere avviene anche per quanto riguarda il tartufo: perché si formi occorre la concomitanza di una serie di fattori che concorrono a costituire quello che viene indicato come habitat. L’habitat è infatti definito come l’insieme di fattori naturali che consentono o favoriscono la presenza e la diffusione di una determinata specie (pianta o animale).
Il tartufo per poter crescere ha bisogno di condizioni molto particolari e specifiche, che non si trovano ovunque, e che si localizzano in pochissimi ambienti, specie per il Tartufo Bianco che è presente solo in Italia e pochi altri luoghi. Ecco che si comprende l’importanza del mantenimento e della conservazione di questi ambienti e delle loro peculiarità.
Entrando nel merito, i fattori che concorrono all’habitat adatto per il Tartufo Bianco sono: il terreno (fattore base), il clima (fattore predisponente), la vegetazione (fattore scatenante).

I terreni dove cresce il Tartufo Bianco a San Miniato


Tutti quanti abbiamo un’idea immediata e pratica di cosa è il terreno, ma raramente ci soffermiamo a riflettere su cosa compone la terra e perché i terreni sono così diversi fra loro. E proprio nel mondo del tartufo la terra, il terreno, ha un’importanza fondamentale, proprio perché il tartufo, anche senza aver studiato pedologia, la scienza che studia i suoli, sa benissimo da solo in quali terreni può nascere, crescere e riprodursi.

L’origine dei terreni
I terreni derivano dalle rocce attraverso un processo detto di “pedogenesi”, ossia di nascita del suolo. Si intuisce facilmente come il tipo di roccia da cui si forma il terreno ha un’influenza determinante sul tipo di suolo che successivamente si formerà e sulle sue caratteristiche.
La roccia nel tempo subisce l’aggressione di svariati fattori fra cui il sole, il cui calore provoca il fenomeno detto di dilatazione termica, l’acqua, che provoca lo scioglimento delle sostanze solubili, il ghiaccio che provoca enormi pressioni se riesce a formarsi all’interno della roccia stessa.
A questi fattori subentrano successivamente anche i fattori biotici che provocano anch’essi la disgregazione della roccia attraverso le radici delle piante che fendono la roccia stessa o che la sgretolano con l’emissione di sostanze corrosive.
Lentamente ma costantemente e inesauribilmente la roccia quindi si sfalda in particelle sempre più piccole. Quando le particelle hanno raggiunto una dimensione precisa la roccia è diventata... terra.

La composizione del terreno
Un terreno è composto da quattro parti. La prima è la “parte solida” ossia la parte minerale costituita dalle particelle formatisi dalla disgregazione della roccia. La seconda parte è la “parte gassosa”, ossia gli spazi vuoti lasciati dalla parte minerale. Immaginate ora un barattolo riempito di palline di diversa dimensione: rimarranno comunque un po’ di spazi vuoti. In questi spazi vuoti si inserisce la terza parte, la “parte liquida”, ossia l’acqua che va a infilarsi in questi spazi finchè le piante non la prelevano o il caldo non la fa evaporare. La quarta parte è la “parte organica”, ossia derivante dagli organismi viventi che sono stati sul terreno; essa è molto variabile a seconda del tipo di terreno originario e del grado di utilizzazione del suolo.

La parte minerale del terreno
Questa parte è quella che determina in modo sostanziale il tipo di terreno.
Nella parte minerale si distinguono tre categorie principali di particelle: la sabbia, il limo e l’argilla. L’argilla è composta dalle particelle più piccole di 0,002 mm, le particelle di limo invece sono comprese fra 0,002 mm e 0,2 mm, la sabbia infine è la parte di terreno dove le particelle sono comprese fra 0,2 mm e 2 mm; oltre 2 mm si parla di scheletro.
La diversa proporzione fra le tre componenti dà luogo ai diversi tipi di terreno.
Un terreno dove prevale la parte argillosa è un terreno che, bagnato, rimane umido a lungo trattenendo l’acqua per molto tempo; una volta asciutto diventa compatto, duro, e poiché l’argilla bagnandosi si rigonfia e asciugando si contrae, dà luogo a ampie e profonde crepature.
Un terreno sabbioso invece quando viene bagnato non trattiene l’acqua e pertanto si asciuga rapidamente, non si compatta rimanendo sciolto e incoerente.
La diversa capacità dei terreni di trattenere l’acqua è legata alle dimensioni che le particelle lasciano agli spazi vuoti: più piccole sono le particelle e più piccoli sono gli spazi vuoti dove l’acqua va a “incastrarsi” e quindi viene trattenuta con più forza; più grandi sono le particelle e più grandi sono gli spazi vuoti dove l’acqua ha modo di liberarsi con più facilità.
In realtà le cose non sono esattamente così elementari. L’acqua viene più o meno trattenuta a seconda delle forze di capillarità che si istaurano nei vari tipi di terreno, ma intuitivamente  gli esempi sopra descritto rendono l’idea con precisione. Ci sono poi i terreni dove le varie componenti sono equilibrate fra loro, i cosiddetti terreni di medio impasto, come lo sono la maggior parte dei terreni agrari, dove il comportamento è intermedio fra i casi estremi sopra descritti.

Uno sguardo al suolo
Andando per boschi sarà sicuramente capitato, mentre ad esempio si percorre una strada incassata, di dare un occhio alle pareti della strada stessa e si sarà notato come il terreno cambia passando dalla parte alta alla parte più bassa. Quello che stiamo guardando è il cosiddetto “profilo” del suolo ed è la sovrapposizione degli strati che si può osservare in qualunque terreno se si prendesse un escavatore e si scavasse una fossa più o meno profonda.
Il profilo del terreno contiene i seguenti strati, detti più propriamente “orizzonti”, indicati con lettere:
Orizzonte O: è lo strato composto dalla sostanza organica, spesso presente nei suoli forestali come humus, poco presente nei terreni coltivati.
Orizzonte A: è uno strato che si modifica continuamente per l’interazione con le piante, il clima e soprattutto l’acqua che filtrando porta verso il basso tutta una serie di sostanze.
Orizzonte B: è uno strato che si modifica principalmente a seguito dei depositi portati dall’acqua dagli strati superiori.
Orizzonte C: è uno strato poco alterato in ogni senso.
Orizzonte R: è la roccia madre.



Il terreno e i tartufi
Ad ogni tartufo il suo terreno; anzitutto tutte le specie di tartufo prediligono terreni con pH subalcalino e pertanto i terreni ricchi di sostanza organica non sono adatti in quanto tendenzialmente acidi in conseguenza della trasformazione della sostanza organica stessa che genera acidi umici e fulvici.
Il Tartufo Bianco poi cresce sottoterra e pertanto i terreni argillosi non sono assolutamente adatti al suo sviluppo in quanto asciugandosi lo comprimerebbero impedendogli di crescere. Molto più adatti i terreni sabbiosi, sciolti e incoerenti, che permettono al tubero di espandersi. Infatti i terreni migliori sono proprio i terreni tufacei, le sabbie marine depositatesi nel pliocene e che costituiscono le colline di San Miniato e dei dintorni. Immaginatevi nel corso di migliaia di secoli, le particelle di sabbia portate al mare che pian piano si sono depositate formando questi strati di terreno che, una volta ritiratosi il mare o alzandos il suolo, sono emersi. Con il passare del tempo questi strati sono stati corrosi dai vari corsi d’acqua che hanno scavato solchi più o meno profondi, anche decine di metri, dando luogo alle vallecole tipiche di questa parte di territorio dove il Tartufo Bianco trova l’habitat ideale.

Gli altri tartufi
Il Tartufo nero pregiato e il Tartufo nero estivo o Scorzone prediligono terreni con caratteristiche simili a quelle dei terreni preferiti dal Tartufo Bianco, ma con una parte di scheletro più elevata, ossia con una maggiore quantità di parti più grossolane, quindi permeabili e aerati, con buona provvista di calcare, che garantisce il mantenimento di un pH ideale.

Il pH 
Il pHè una misura dell’acidità ed è misurato da una scala che va da 0 a 14. Il pH ha valore neutro, ossia non è nè acido nè basico, a 7. Sotto 7 fino a 0 siamo in ambiente acido, ad esempio il succo di pomodoro, il succo di limone fino all’acido solforico.
Sopra 7 fino a 14 siamo in ambiente basico (detto anche alcalino), ad esempio il bicarbonato, l’ammoniaca, fino alla soda caustica.
Il tartufo vive bene in ambienti con pH subalcalino, cioè un po’ più di 7, diciamo che l’ottimale va da 7,2 fino a 7,6.

© Riccardo Buti e Fabrizio Mandorlini - Oro Bianco. Il Tartufo di San Miniato - Fm Edizioni

Il clima e il tempo ideale per la crescita del Tartufo Bianco a San Miniato


Tempo meteorologico e clima sono due fattori strettamente collegati tra loro, ma non sono la stessa cosa: il tempo meteorologico è una situazione temporanea e locale di determinate condizioni quali la temperatura, l’umidità, le precipitazioni, il vento ed altri elementi; il clima è il ripetersi più o meno regolare in una area geografica di determinate condizioni meteorologiche nel corso dell’anno. Vi sono zone della terra, a seconda della maggiore o minore latitudine, ossia della distanza del luogo dall’Equatore, in cui il clima ha caratteristiche estreme e sono i Circoli Polari e la fascia Equatoriale. L’habitat del Tartufo Bianco si trova nella fascia temperata, ossia nella fascia del pianeta dove le condizioni sono intermedie alle precedenti. All’interno della fascia temperata il Tartufo Bianco si trova nella regione il cui clima è di tipo mediterraneo (estati non eccessivamente calde e inverni tendenzialmente miti), prediligendo gli ambienti freschi e umidi, con temperature mediamente più basse.
Nella zona di San Miniato i fattori che hanno un’influenza essenziale a creare le condizioni ideali per l’habitat del tartufo sono quelli che determinano a livello locale ciò che si definisce “microclima”, ossia particolari condizioni di temperatura e umidità che si discostano, anche sensibilmente, da quelle delle aree immediatamente circostanti. Tra questi fattori i principali sono l’esposizione, ossia la posizione rispetto al percorso apparente che il sole compie nel cielo; la presenza di copertura arborea che tende a mantenere alta l’umidità e abbassare le temperature; la localizzazione all’interno di una valle dove si può accumulare l’acqua per gravità e addensare aria fredda (più pesante) anche con inversione termica. E’ proprio in questi ambienti molto localizzati che il tartufo trova le condizioni ideali di temperatura ed umidità, in particolare per l’esposizione a nord e per l’ubicazione nei fondovalle, in quanto tendenzialmente più freschi ed umidi. In altre zone della Toscana a quote più elevate il Tartufo Bianco infatti predilige le zone con esposizioni maggiormente soleggiate e non necessariamente all’interno di vallecole. Infine occorre mettere in evidenza che, anche se il ciclo del tartufo non è conosciuto come per i funghi epigei non potendo essere seguito direttamente durante la sua evoluzione, è accertato che ha grande importanza il periodo delle precipitazioni. Anzitutto deve piovere al momento presunto della formazione dei corpi fruttiferi ossia nel periodo maggio – agosto (un vecchio detto dice che “deve piovere sul fieno”). Questo è garantito dalle piogge che, anche sotto forma di acquazzoni, avvengono nel periodo tardo primaverile ed estivo. L’umidità, ma senza ristagni, deve poi essere garantita durante la crescita del tartufo e nella fase finale della maturazione che avviene nel periodo autunno-invernale, momento in cui in Toscana si concentra la maggior piovosità dell’anno. E’ quindi ovvio che i cambiamenti climatici in corso probabilmente avranno un impatto consistente sull’habitat del Nostro.

© Riccardo Buti e Fabrizio Mandorlini - Oro Bianco. Il Tartufo di San Miniato - Fm Edizioni


Le piante che fanno crescere il Tartufo Bianco a San Miniato


Ogni tartufaio sa perfettamente che il prezioso prodotto che ogni stagione lo impegna nella ricerca è sempre associato ad un albero, grazie al rapporto che si istaura fra il tartufo e la pianta.
Anzitutto si deve ricordare che il tartufo è un fungo. Si differenzia da tutti i funghi comunemente conosciuti (porcini, gallettini, ovuli etc.) in quanto sviluppa i propri organi riproduttivi non sopra il terreno, ma nel sottosuolo. Occorre tenere presente infatti che il tartufo, quello che si raccoglie, non è “il fungo”, ma il suo corpo fruttifero, ossia l’organo deputato alla riproduzione e diffusione.
Il fungo vero e proprio è costituito da filamenti, chiamati ife, che tutti insieme nel terreno costituiscono il micelio. Ecco il motivo per cui una volta cavato il tartufo si deve sempre ricoprire bene la buca, perché la buca aperta porta allo scoperto il micelio tartufigeno e se questo secca il tartufo non si riproduce. Inoltre il tartufo non è un fungo che vive cibandosi di legno e parti morte di piante  e neppure è un fungo che vive danneggiando altre piante (come la “famigliola buona”). Al contrario si trova sulle radici di piante vive da cui riceve le sostanze alimentari aiutando a loro volta le radici a prendere le sostanze minerali dal terreno. I tartufi fanno parte dei funghi simbionti o micorizzici e nella quasi totalità dei casi la pianta simbionte è un albero. Talvolta a certe specie di alberi è associata una specie di tartufo solamente, altre volte la stessa specie può trovarsi associata a più tipi di tartufo. Ecco le specie di albero che possono essere trovate associate al Tartufo Bianco.
Pioppo: a San Miniato è “l’albero” per definizione, ma all’interno di questo genere se ne distinguono moltissime specie che si differenziano per la corteccia, il portamento, la forma della foglia. Caratteri comuni di tutti i pioppi sono di essere specie ad accrescimento rapido, di vivere spesso in luoghi umidi, lungo i corsi d’acqua, sulle ripe dei fiumi e dei torrenti dove può vivere isolato o formare boschi insieme ad altre piante che vivono bene in presenza di alta umidità come l’Ontano. Le specie di Pioppo con cui si possono trovare consociati i tartufi sono:
Pioppo bianco: si riconosce facilmente per la corteccia bianco - grigiastra e la foglia palmata a tre - cinque punte, verde scura sopra, bianca argentata sotto;
Pioppo gatterino: ha un foglia tondeggiante con una piccola punta appena accennata all’apice, verde chiara sopra, grigio biancastra sotto.
Pioppo tremolo: ha una foglia simile al pioppo gatterino, da cui si distingue per avere la foglia completamente tondeggiante o ovale, senza la punta all’apice.
Pioppo nero: ha foglia triangolare, verde scura sopra, verde chiaro sotto, di piccole e medie dimensioni; la corteccia è bruna - grigiastra, solcata;
Pioppo cipressino: simile al Pioppo nero, si distingue per il portamento in quanto i rami laterali crescono puntando direttamente verso l’alto e quindi la chioma è raccolta e affusolata, così da sembrare un cipresso.
Pioppo canadese: corteccia bruna, si distingue in quanto la foglia, nella forma identica al Pioppo nero, è di solito più grande; inoltre ha una corteccia più liscia. E’ il Pioppo coltivato.
Salice: altra pianta molto importante nella produzione di Tartufo Bianco. Vive anch’esso lungo le ripe dei fiumi e nei luoghi umidi, ha un rapido accrescimento e grande facilità di radicazione. Per queste sue caratteristiche viene utilizzato spesso in opere di ingegneria naturalistica nella risistemazione di sponde, argini ecc., pertanto può essere opportunamente impiegato a scopo bivalente di sistemazione idraulica e ripiantumazione di piante tartufigene. A questo gruppo appartengono:
Salicone: non molto diffuso nelle nostre zone; ha una foglia ellittica di media grandezza, rami e fusto molto sinuoso, corteggia grigia scura, fessurata.
Salice bianco: si distingue dal salicone in quanto ha rami più sottili e flessibili e foglie più strette e sottili. Il salice bianco è meglio conosciuto come “vettrice”, le varietà con rametti di colore giallo o rosso sono invece conosciute con il termine di “salci” e sono da sempre utilizzati per fare ceste, vimini e un tempo per legare le viti.
Querce: è pianta con la quale micorrizzano diverse specie di tartufo e costituisce la maggior parte dei boschi di latifoglie nelle nostre aree; prediligono terreni freschi ma non eccessivamente umidi; sono caratterizzate da avere un lento accrescimento, chioma espansa, foglia semplice, più o meno lobata, ma sempre in modo caratteristico. All’interno del genere quercia nei boschi di San Miniato le specie che si possono trovare sono:
Farnia: si caratterizza per avere una foglia ampia, picciolo molto corto, quasi inesistente, una ghianda dotata di un lungo peduncolo, corteccia tendente al grigio, solcata, con placche di dimensioni sottili. Si distingue dalla Rovere, specie più rara, in quanto quest’ultima ha la ghianda senza il peduncolo, mentre del peduncolo ne è dotata la foglia.
Roverella: ha foglia più piccola della Farnia, coperta di una peluria biancastra come i rametti e i piccioli, tronco grigio – marrone, a placche piccole.
Cerro: si distingue per avere la foglia maggiormente lobata, capsula che contiene la ghianda con lunghi peli spessi e ispidi, tronco solcato con placche più grandi.
Leccio: è una specie di quercia sempreverde, la foglia non è lobata, verde scura, il tronco di colore scuro non è solcato.
Carpino: genere di albero dal fusto eretto, si trova più spesso insieme ad altre piante arboree, soprattutto querce.
Le specie più comuni sono:
Carpino bianco: è caratterizzato da una corteccia chiara, biancastra, una foglia ovale, solcata, molto liscia.
Carpino nero: si distingue dal precedente per la corteccia scura, bruno grigiastra, a placche molto piccole.
Tiglio: pianta caratterizzata da un accrescimento rapido, fusto dritto di colore scuro, corteccia divisa a piccole placche, foglia grande a forma di cuore. Si può trovare sia come specie sporadica nelle formazioni boschive ma anche come pianta isolata.
Nocciolo: albero solitamente di dimensioni contenute, talvolta con portamento arbustivo per i numerosi polloni. La corteccia è bruna, liscia, la foglia è tondeggiante, con il margine caratterizzato dalla doppia dentellatura, terminando con una punta centrale.
Vi sono infine alcune specie arboree che non sono riconosciute tartufigene e pertanto non sono riportate e descritte nei libri e nelle pubblicazioni specializzate. In ogni caso l’esperienza del  tartufaio riconosce a queste piante una capacità di produrre tartufi, e fra queste si rammenta l’Orniello, specie di frassino molto comune nei nostri boschi.

© Riccardo Buti e Fabrizio Mandorlini - Oro Bianco. Il Tartufo di San Miniato - Fm Edizioni

I boschi migliori per la crescita del Tartufo Bianco a San Miniato


In un ambiente tartufigeno si trovano sempre alberi, spesso di specie diverse, quasi sempre insieme ad arbusti e a varie specie erbacee. Intatti è stato appurato da numerosi studi che oltre alla presenza delle specie arboree simbionti anche la presenza di determinati arbusti, una certa conformazione e costituzione del bosco è altrettanto importante.
Perchè un bosco abbia una determinata consociazione, idonea alla produzione di tartufi, occorre anzitutto che le piante trovino il loro habitat, l’ambiente ideale, riguardo al terreno, all’umidità, alla temperatura e all’esposizione.
Tante volte infatti capita che in un ambiente che sembra essere complessivamente ideale, il tartufo cresca solo in alcuni punti ed in altri no, come può capitare che ambienti apparentemente idonei non ne producano e viceversa. Infatti a seconda delle condizioni microclimatiche può capitare che la vegetazione cambi anche a poche decine di metri di distanza e prendano maggior sviluppo determinate piante rispetto ad altre. Ad esempio dove l’ambiente è più asciutto le piante che richiedono molta umidità saranno sostituite dalle piante con minor esigenze, dove invece il terreno è soggetto ad allagamento o peggio a ristagni saranno le piante tolleranti a queste condizioni a sopravvivere. Le gelate poi rappresentano un’ottima selezione naturale.
E’ comunque impossibile non notare che ci sia una affinità parallela fra le piante e i diversi tipi di tartufo determinata proprio dalle diverse caratteristiche dei terreni e del clima in cui entrambi trovano l’habitat ideale: le piante che meglio si sviluppano in ambienti con terreni sciolti, freschi, umidi, microclimi tendenzialmente freddi sono i pioppi e i salici, le piante preferite dal Tartufo Bianco per la micorrizzazione. Il Tartufo nero invece si micorrizza anzitutto con piante che tollerano ambienti tendenzialmente asciutti come lo sono i terreni scheletrici, e in particolare quindi con i vari tipi di quercia, ma la pianta con cui si micorizza con la maggiore affinità è il nocciolo, pianta molto frugale che predilige proprio i terreni calcarei.

La struttura di un bosco
Prima di procedere a illustrare i boschi, o meglio, le formazioni forestali idonee alla produzione di tartufi è opportuno descrivere come è composto un bosco.
Solitamente un bosco viene suddiviso in quattro strati, e più precisamente partendo dall’alto.
Piano dominante: è composta dalle specie arboree che sono cresciute in altezza più di tutte le altre e quindi “dominano” dall’alto le altre specie;
Piano dominato: anche questo è composto da specie arboree ma che sono cresciute ad altezze inferiori rispetto a quelle del piano precedente. Questo può essere dovuto alla loro natura intrinseca, oppure a condizioni contingenti;
Piano arbustivo: è quello composto dalle piante con portamento arbustivo;
Piano erbaceo: è quello composto dalle essenze erbacee.
Occorre tenere presente che ci sono piante che possono stare solo in uno dei piani sopra indicati, ad esempio tutte le erbe graminacee possono evidentemente stare solo in quello erbaceo, come ci sono piante che possono stare in più piani e si trovano in uno o nell’altro a secondo delle condizioni che hanno incontrato nello sviluppo o a seconda della forma di governo del bosco.
Un esempio classico è una fustaia a pino su ceduo di cerro, dove il primo costituisce il piano dominante mentre il secondo costituisce il piano dominato. Ma in un ceduo composto di cerro questo è al contempo nel piano dominante e nel piano dominato.
Ci sono poi alberi che si trovano in un certo strato solo nelle fasi giovanili, esempio il pino che per sua natura tende a occupare il piano dominante. E infine piante che preferiscono stare in un piano rispetto ad un altro, esempio il leccio che, come indica il colore scuro delle foglie, si trova perfettamente a suo agio nel piano dominato.
A seconda delle specie di piante che costituiscono i piani indicati si hanno tipologie di bosco diverse che in ambito forestale vengono indicati con nomi specifici e che rappresentano i cosiddetti “tipi forestali”.



I boschi dove cresce il Tartufo Bianco a San Miniato
Il Tartufo Bianco si trova in diverse tipologie di bosco. L’habitat ideale è quello dei boschi alveali e ripari, cioè in prossimità dei corsi d’acqua nelle aree di alveo ma soprattutto di ripa. La tipologia di bosco si inquadra nel tipo di bosco che in ambito forestale è denominato “Saliceto e pioppeto ripario”. Le piante arboree sono il pioppo bianco e il pioppo nero che possono far parte del piano dominante ma anche del piano dominato, soprattutto il primo. Si trovano poi i salici e varie specie di querce presenti anch’essi sia nel piano dominante che nel piano dominato, mentre noccioli, carpini e olmi tendono per loro natura e per il particolare tipo di sviluppo a stare nel piano dominato. Gli arbusti sono costituiti dal corniolo, dalla sanguinella, dal prugnolo selvatico, dal biancospino e da altre essenze.
Un’altra tipologia di bosco nella quale è possibile trovare il Tartufo Bianco, seppur più sporadicamente, sono i boschi a prevalenza di querce, in particolare roverella e cerro. I tipi forestali a prevalenza di roverella e cerro sono molto numerosi, e, oltre a queste specie, vi si possono trovare ornielli, noccioli, carpini, pioppi, aceri campestri. Gli arbusti in questo caso sono per lo più corniolo, sanguinella, evonimo, biancospino, prugnolo selvatico. In queste tipologie di bosco per la presenza di tartufo è particolarmente determinante l’esposizione e la disponibilità di acqua.
Un altro ambiente nel quale è possibile trovare il Tartufo Bianco, anche se non è possibile definirlo bosco e tanto meno tipo forestale, è la pioppeta coltivata. In questo caso, oltre alla disponibilità idrica e l’esposizione, è la varietà di pioppo che è determinante in quanto vi sono varietà simbionti ed altre, in particolare alcuni cloni ibridi, che non riescono a istaurare micorrize.
Diamo un accenno anche ai tipi di bosco necessari per altre due categorie di tartufi che, in altri periodi dell’anno si trovano anche nel territorio delle colline sanminiatesi, il tartufo nero e il tartufo marzuolo.

I boschi dove cresce il Tartufo nero: i terreni dove il tartufo nero pregiato ed altre specie di tartufo nero trovano l’habitat ideale sono i terreni calcarei, ricchi di scheletro, soleggiati, anche non particolarmente freschi. Su questi terreni la specie che maggiormente si trova a proprio agio sono il nocciolo e la quercia, in particolare la roverella, che occupa il piano dominante. Gli arbusti sono principalmente costituiti da ginestra, ginepro, prugnolo, erica e pochi altri. Altre tipologie di bosco dove è possibile trovare specie di Tartufo nero sono le cerrete, le leccete e le faggete, dove la specie che occupa il piano dominante è principalmente quella che da il nome al tipo forestale.
I boschi dove cresce il Tartufo marzuolo: il marzuolo si trova tipicamente nelle pinete litoranee e interne, in quelle che sono rimaste dopo l’attacco del Matsococcus feytaudi che ne ha causato la decimazione. Qui il piano dominante è costituito dal pino nelle diverse specie. Nelle pinete litoranee troviamo il pino domestico o il pino marittimo; il piano dominato è sporadico se non assente, mentre il piano arbustivo è costituito da ginepro, fillirea, corbezzolo, mirto ed altre specie.
Nelle pinete interne le specie maggiormente presenti nel piano dominante sono il pino marittimo e il pino d’Aleppo, il piano dominato è costituito da ceduo con querce, orniello, sorbo, nocciolo, castagno, acero, olmo, leccio, pero e melo selvatico.
Il piano arbustivo invece è costituito da biancospino, evonimo, sanguinella, ginepro, corniolo.
Per quanto riguarda i tipi forestali nel caso delle formazioni litoranee si parla di “Pinete” che possono essere appunto di pino domestico, marittimo o d’Aleppo, pinete a sua volta distinguibili in “dunali” (mesomediterranea, termomediterranea e a leccio) e “planiziali”.
Le formazioni interne, dove è possibile riscontrare il tartufo marzuolo, sono principalmente del “cerreto acidofilo dei terrazzi a paleosuoli” (Cerbaie) e del “querceto acidofilo di roverella e cerro” entrambi nella variante a pino marittimo.

© Riccardo Buti e Fabrizio Mandorlini - Oro Bianco. Il Tartufo di San Miniato - Fm Edizioni

Come nasce, cresce e matura il Tartufo Bianco


Il Tartufo (che per la sua forma viene anche definito impropriamente tubero), appartiene al gruppo dei funghi, come i porcini, le rossole, i gallettini, gli ovoli; in realtà quello che viene raccolto non è il fungo vero e proprio, ma il carpoforo (organo del fungo adibito alla produzione delle cellule riproduttive). Poiché il Tartufo si riproduce nel sottosuolo è un fungo ipogeo (sotto terra), mentre la maggior parte dei funghi più comunemente conosciuti hanno il carpoforo all’esterno e quindi sono detti epigei (sopra terra).
Il Tartufo è formato dal peridio (parte esterna del tartufo) e dalla gleba (parte interna del tartufo, composta da una fitta trama di venature più scure e più chiare intrecciate alternativamente) nella quale ritroviamo le spore (cellule destinate alla diffusione del fungo).
A maturazione il Tartufo, marcendo sul posto o diffondendosi per mezzo di animali che se ne sono cibati, dissemina le sue spore; queste se trovano le condizioni adatte di suolo, temperatura e umidità, germinano e producono un’ifa (filamento di cellule allineate provenienti dalla germinazione della spora) che cresce allungandosi in tutte le direzioni, diramandosi continuamente e aggrovigliandosi su se stessa: le ife cresciute nel terreno diventano in questo modo micelio (intreccio di ife nel terreno che costituisce la parte vegetativa del fungo, l’organismo fungino vero e proprio).



Sviluppandosi nel terreno le ife del micelio entrano in contatto con le radici delle piante e con alcune di esse, che il Tartufo è in grado di riconoscere, istaura una simbiosi (particolare rapporto fra due organismi diversi in cui entrambi hanno un reciproco vantaggio). Il Tartufo è infatti un fungo cosiddetto simbionte (organismo che istaura simbiosi con altri organismi), a differenza di altre specie di funghi che sono saprofiti (organismi che si nutrono di altri organismi morti) o parassiti (organismi che vivono a spese di altri organismi senza recargli alcun vantaggio, anzi a volte provocandogli danni più o meno gravi). Il Tartufo poi è un fungo detto anche micorrizico in quanto l’ifa del Tartufo avvolge la radice della pianta creando una struttura detta appunto micorriza (struttura formata dalla parte più esterna della radice della pianta che si è ingrossata ed è stata avvolta completamente dalle ife fungine); è qui che fra il fungo e la pianta avvengono i reciproci scambi: il fungo aiuta la pianta ad assorbire l’acqua e gli elementi minerali presenti nel terreno, la pianta a sua volta cede al fungo le sostanze nutritive che il fungo non è capace di produrre. Infatti mentre le piante sono organismi autotrofi (organismi capaci di prodursi il nutrimento, e trattandosi di piante questo avviene con la fotosintesi clorofilliana), i funghi sono organismi eterotrofi (organismi che devono procurarsi il nutrimento dall’esterno).
Per potersi formare i tartufi dovranno quindi essere necessariamente presenti, oltre che ovviamente un ambiente adatto sotto l’aspetto pedologico e climatico per lo sviluppo di entrambi gli organismi, una pianta simbiontica ed un fungo che istaurano questo particolare rapporto, un rapporto che, decisamente, produce buoni frutti.

© Riccardo Buti e Fabrizio Mandorlini - Oro Bianco. Il Tartufo di San Miniato - Fm Edizioni

Sviluppo sostenibile, qualità ambientale e difesa del territorio


Da sempre il Tartufo Bianco ha trovato nel territorio di San Miniato il suo habitat ideale, non solo nei boschi, habitat congeniale, ma anche negli ambienti cosiddetti antropizzati, ossia dove si esplicava la presenza dell’uomo e del suo lavoro. In tutta la Toscana infatti la campagna, il cosiddetto “contado”, era organizzata secondo un ordinamento fondiario, originario fin dal medioevo, incentrato sulla mezzadria: un sistema di conduzione che prevedeva la suddivisione delle campagne in fattorie, a sua volta suddivise in poderi, garantendo così la presenza dell’uomo e del suo lavoro in ogni parte del territorio.
I campi avevano una lunghezza, e di conseguenza una larghezza, adeguata allo sforzo dei bovini, il cosiddetto “motore animale”, definito come “un male necessario”. La lunghezza dei campi era infatti “a respiro di bove”, ossia proporzionata allo sforzo che gli animali potevano compiere prima di dovere riprendere fiato; inoltre i campi erano coltivati principalmente in coltura promiscua, ossia con filari di viti, olivi, salici, aceri ed altre piante sul bordo; separavano i campi l’uno dall’altro le fosse nelle quali venivano raccolte le acque piovane in eccesso. Il territorio risultava pertanto suddiviso in una fitta maglia di appezzamenti di dimensioni che in pianura potevano raggiungere i 70 - 90 metri in lunghezza e 20 - 30 metri in larghezza, in collina le dimensioni dipendevano dalla pendenza ma erano comunque mediamente inferiori. E poiché la cura del podere era un aspetto che veniva valutato nell’opera del mezzadro e della sua famiglia, le fosse, i campi e tutto il podere era pulito e ben curato, compreso i boschetti cedui che fornivano legna da ardere, pali per gli attrezzi e le colture, pascolo per gli animali. Tutto questo contribuiva a dare alla campagna toscana quell’aspetto, quei caratteri di paesaggio, che ritroviamo nei quadri e nelle rappresentazioni del passato e che nell’800 hanno stregato i viaggiatori ed i cronisti stranieri che hanno definito la Toscana un giardino; un giardino che permetteva di mantenere integro l’habitat del Tartufo Bianco e di limitare frane, smottamenti, incendi e alluvioni.
Il sistema fondiario incentrato sulla mezzadria si è mantenuto fino al secondo dopoguerra, allorquando l’industrializzazione ha prodotto nelle campagne due effetti. Anzitutto l’industria emergente, nella zona soprattutto quella del cuoio e della lavorazione del pellame, ha assorbito molta forza lavoro dalle campagne che si sono di conseguenza spopolate; l’industria poi ha fornito all’agricoltore una nuova forza motrice, il trattore, con cui sostituire gli animali nella lavorazione dei campi. Ma le macchine per esplicare al meglio la propria produttività, potendo compiere uno sforzo costante e prolungato, avevano bisogno di superfici continue, senza interruzioni, e quindi fosse e colture promiscue sono state eliminate, realizzando ampie superfici accorpate specializzate. Quando le superfici non potevano essere adattate ad una simile trasformazione, i cosiddetti terreni marginali che per l’eccessiva pendenza, la conformazione, la superficie limitata o per altri fattori intrinsechi non potevano comunque essere coltivati convenientemente, venivano abbandonate e andavano incontro alla diffusione di vegetazione spontanea.
A seguito dei consistenti cambiamenti nella conduzione dell’attività agricola, il Tartufo Bianco, indicatore estremamente sensibile della qualità ambientale, ha diminuito sensibilmente la sua presenza. Infatti con la scomparsa dell’estesa affossatura lungo i campi dove si trovavano piante adatte alla micorrizzazione sono scomparsi numerosi siti tartufigeni. In qualche caso la cessazione nella coltivazione di superfici agricole ha favorito la proliferazione anche di piante non tartufigene con ulteriore diminuzione di tartufaie. La possibilità di utilizzare la trazione meccanica poi ha favorito la diffusione di pratiche agricole non idonee allo sviluppo delle micorrizze, come ad esempio le arature profonde, l’uso di certi tipi di erpice o frangizzolle, l’impiego di determinati prodotti chimici, senza dimenticarsi che l’uso di macchine sempre più grandi e potenti non solo in agricoltura, ma anche nelle opere di sistemazione idraulica e forestale, ha avuto ulteriori impatti negativi sugli habitat del tartufo.
Parallelamente alla diminuzione degli habitat del Tartufo, per gli stessi motivi sopra descritti, sono aumentati considerevolmente i rischi legati alla regimazione idraulica, favoriti anche da una sempre più estesa, in diversi casi quanto meno non oculata, utilizzazione del territorio a scopi urbani e industriali con conseguente impermeabilizzazione di superfici molto estese.
I due aspetti sono strettamente collegati perché l’habitat del tartufo attualmente si è localizzato principalmente nei diversi tipi di formazioni boschive presenti lungo i corsi d’acqua e nelle piccole valli, compreso le superfici prima coltivate ed oggi ricolonizzate dalla vegetazione spontanea. In questi siti ovviamente più alberi simbionti si trovano meglio è, ma questo non è altrettanto vero per quanto riguarda la regimazione idraulica. Infatti molto spesso le essenze arboree presenti in questi territori marginali non hanno più la manutenzione che un tempo era garantita dalla presenza capillare dell’uomo, ma sono lasciate all’incuria andando incontro a processi di degrado. Questo è causa nei periodi estivi di problemi riguardo alla sicurezza contro gli incendi in quanto rami secchi, foglie, arbusti di tutte le dimensioni e sviluppo sono facile innesco; al contrario d’inverno le ramaglie ed i residui vegetali spesso causano una diminuzione delle sezioni idrauliche e ostruzione nei punti obbligati.
La soluzione più semplice è rappresentata dall’eliminazione massiccia delle specie vegetali lungo i corsi d’acqua, in modo da non avere materiale combustibile per gli incendi e impedimento al deflusso delle acque. Per il tartufaio l’eliminazione spinta degli alberi simbionti con il tartufo non è ovviamente cosa auspicabile in quanto meno alberi significa meno tartufi.
Occorre inoltre tenere presente che per limitare il rischio di esondazioni, oltre alle indispensabili opere idrauliche di grande portata, è indispensabile anche una attenta e capillare manutenzione di tutto il territorio. Per limitare il rischio di alluvioni infatti devono essere messi in atto tre principi:
- a monte l’acqua deve essere tenuta quanto più possibile al fine di allungare il cosiddetto “tempo di corrivazione”, ossia il tempo che una goccia d’acqua impiega mediamente a raggiungere l’alveo del fiume: un tempo di corrivazione basso significa che la quantità d’acqua caduta con una pioggia raggiunge rapidamente e tutta insieme l’alveo del fiume o del torrente, con problemi legati a una spesso insufficiente capacità di smaltimento, soprattutto perché questa massa d’acqua che affluisce lo fa in concomitanza con altre masse d’acqua analogamente formatesi. Le piante che si trovano lungo i piccoli corsi d’acqua e le vallecole, fra tutte le altre, assolvono la funzione di trattenuta delle acque in modo molto efficace e quindi contribuiscono a aumentare i tempi di corrivazione. Addirittura in passato lungo i corsi d’acqua vi erano dei punti indicati come “ragnaie” e consistevano in piccoli boschetti, principalmente di pioppo, realizzati con il preciso scopo di rallentare il deflusso delle acque;
- a valle l’acqua deve defluire dall’alveo del fiume nel minor tempo possibile e pertanto in questa parte del territorio le ostruzioni devono essere limitate se non del tutto eliminate;
- quando l’eccezionalità dell’evento comunque non permette lo smaltimento delle acque si devono individuare aree nelle quali l’acqua possa esondare senza procurare danni. Per questo dopo la tracimazione dell’Arno nel 1966 furono già individuate alcune aree lungo il suo corso con questo scopo, e quando agli inizi degli Novanta per le copiose piogge il torrente Egola è tracimato allagando il centro di Ponte a Egola e la relativa zona industriale, sono state progettate e realizzate due casse di espansione a monte del centro abitato.
Ulteriori aspetti da considerare sono il mantenimento della diversità biologica e l’alimentazione delle falde freatiche: una eliminazione spinta e non selettiva delle piante lungo i corsi d’acqua porta infatti ad un generale impoverimento degli habitat naturali e delle specie vegetali ed animali presenti, con conseguente perdita del patrimonio biologico, compreso la perdita dei siti tartufigeni; il trattenimento delle acque a monte ha poi la funzione di rimpinguare le falde idriche attraverso il deflusso dell’acqua nel sottosuolo, mentre un rapido deflusso superficiale non lo permette se non in quantità ridotta.
La sempre più marcata eccezionalità dei fenomeni meteorologici dovuta ai cambiamenti climatici ovviamente aumenta le problematiche sopra esposte.
Le tematiche da valutare sono quindi molteplici e talvolta le soluzioni ideali per una sono in contrasto con un'altra. In ogni caso i primi ad essere interessati alla individuazione delle soluzioni migliori sono proprio quelli che da un ambiente integro hanno i maggiori vantaggi, ossia tartufai e cacciatori, che tra l’altro, frequentando gli ambienti silvani, sono i primi guardiani del bosco, individuando i cambiamenti del territorio in tempo reale e senza dispendi di risorse, cosa che sarebbe difficile censire per l’ente preposto.
Proprio per questa conoscenza del territorio nel caso del Tartufo Bianco è stato possibile, grazie ad un confronto fra tartufai e Amministrazione comunale, censire ed inserire fra le zone protette del piano regolatore comunale quelle a vocazione tartufigena.
Riguardo alle prospettive future, trattandosi del Tartufo Bianco, occorre sempre tenere presente un aspetto essenziale: al contrario del Tartufo nero o del Tartufo marzuolo per i quali è stato riscontrata una certa disposizione alla micorrizazione artificiale delle piante e di conseguenza una attitudine alla coltivabilità, per quanto riguarda il Tartufo Bianco questo finora ha sempre risposto negativamente ad ogni tentativo e di conseguenza alla realizzazione di tartufaie coltivate. Per questo motivo la difesa delle tartufaie naturali esistenti e il miglioramento degli ambienti in attesa di una autonoma ricolonizzazione, sono elementi imprescindibili per il mantenimento di questa risorsa sul territorio.
Diventano quindi fondamentali per il futuro la capacità di confronto fra i diversi soggetti (Amministrazioni pubbliche, Consorzi di Bonifica, associazioni di categoria, proprietari, tartufai, cacciatori e tutti gli operatori e i fruitori del territorio in generale), la qualità nella progettazione degli interventi e della pianificazione territoriale, la capacità di sintesi ed una programmazione che abbia una visione ampia e di lunga prospettiva. Certamente questo comporta un’evoluzione culturale non indifferente, occorre imparare a mettere da parte interessi e risultati contingenti e immediatamente riscontrabili e spendibili, nell’interesse di prospettive superiori e più ampie, ma è probabile che questa sia la grande sfida del futuro, che se si guarda bene lo sarebbe stata anche nel passato, ma che i tempi sempre più stretti e le pressioni sempre più forti impongono, una evoluzione che mette in discussione il nostro essere “toscanacci”, ma necessaria se non vogliamo avviarci ad essere in futuro, come li appellava Indro Montanelli, “toscanucci”.

© Riccardo Buti e Fabrizio Mandorlini - Oro Bianco. Il Tartufo di San Miniato - Fm Edizioni

La veduta aerea del territorio di San Miniato realizzata nell’estate del 1944 evidenzia come erano organizzati e ben curati gli appezzamenti di terreno nella campagna.


Stop alle frodi: come riconoscere il tartufo bianco

Inconfondibile, ineguagliabile, impareggiabile. Possiamo sbizzarrirci negli aggettivi dando prova di padronanza lessicale, ma la sostanza è una soltanto: il Tartufo Bianco delle Colline Sanminiatesi è un prodotto unico. Ed è talmente unico che non può non essere riconosciuto al primo impatto, come un divo che suscita entusiasmo nei fans, non appena viene anche appena intravisto.
Già la sua parte esterna, il peridio in termine tecnico, è caratteristico: la superficie è liscia, non verrucosa, mentre il colore è giallo chiaro con sfumature di verdicchio quando è fresco appena raccolto, acquistando sfumature tendenti al marroncino chiaro asciugando: lo distingue dagli altri che sono bianco sporco, crema, giallo carico o con sfumature, fulve, rossicce, brune.
L’interno poi, la gleba, è ancora più caratteristica, con il suo colore marrone nella tonalità nocciola, percorsa da una fitta ragnatela di vene bianche, nette, ben distinte, che gli danno un aspetto marmorizzato. Talvolta può essere presente una macchia, come una fiammella, di un rosso vivo.
Ma è il profumo che lo caratterizza in modo assolutamente inequivocabile, questo odore squisito, mai stucchevole o troppo intenso, molto persistente, a maturazione completa.
Un odore che si diffonde e contagia tutte le pietanze che lo circonda. Chi ha avuto la fortuna di poter ospitare il tartufo in frigorifero ha un’idea ben precisa: niente si salva all’interno dell’elettrodomestico: il latte, il formaggio, la carne e le altre pietanze, acquisiscono l’odore tipico del tartufo. Neppure l’uovo, all’interno del proprio guscio, riesce ad arginare l’esuberante aroma, rimanendone intriso.
Questo profumo, amalgamandosi con le pietanze, nel palato, si trasforma in flagranza, mantenendo però le sue caratteristiche di delicatezza, persistenza, quasi di garbo, mai aggressivo, mai pesante, mai eccessivo, mai stucchevole.
Questo è il Tartufo Bianco (delle Colline Sanminiatesi).

© Riccardo Buti e Fabrizio Mandorlini - Oro Bianco. Il Tartufo di San Miniato - Fm Edizioni
























Un equilibrio unico che crea benessere e buon vivere


Il Tartufo Bianco a San Miniato rappresenta oggi a livello internazionale uno dei prodotti di maggiore pregio gastronomico, espressione di un territorio in grado di offrire qualità ambientale, integrità del paesaggio, natura splendida. Pochi territori a livello mondiale possono vantarsi di veder crescere il Tartufo Bianco, il più prelibato tra tutti i tartufi. Unico è invece l’equilibrio che si è creato e che è diventata una vera e propria risorsa: far convivere in un territorio, quello di San Miniato, un’industria considerata “invasiva” come quella conciaria, nella valle dell’Arno, a nord, e mantenere integro l’habitat del Tartufo Bianco nelle colline, a sud.
Il Tartufo Bianco è infatti un importante indicatore biologico, perché dove si trova il tartufo non esiste inquinamento.
Questo equilibrio è stato possibile grazie a scelte politiche, imprenditoriali e collettive,  a partire dagli anni Settanta sono stati posti in essere per produrre in maniera sostenibile, preservando l’ambiente in tutti i suoi aspetti e investendo in ricerca, tecnologia e progetti pilota.
Oggi nel Comprensorio del Cuoio, le aziende che hanno precorso i tempi stanno mettendo la ricerca tecnologica e la ricerca nel settore della chimica, esperienza e ricchezza di un territorio, a disposizione dei distretti industriali di tutto il mondo. Sono  nate nuove aziende e competenze, altamente specializzate, che hanno creato ulteriore ricchezza e posti di lavoro e che stanno sviluppando una cultura imprenditoriale post industriale.
Crescita sostenibile con l’ambiente ha un nome a San Miniato e si chiama  Consorzio Cuoiodepur. E’ una delle strutture che nel Comprensorio del Cuoio, si occupano della depurazione.

Un processo di forte industrializzazione, come quello avvenuto nel Comprensorio del Cuoio dal dopoguerra, ha comportato, in analogia a qualsiasi processo di questo genere, un forte impatto ambientale. Per far fronte alla domanda di disinquinamento delle acque e per superare quelle problematiche tipiche delle zone ad alta densità industriale, sono stati realizzati quattro centri per la depurazione delle acque dotati di strutture tra le più complesse ed efficienti d’Italia.
Mentre la politica ambientale in quegli anni tendeva ad esasperare i trattamenti a piè di fabbrica, la realizzazione di strutture centralizzate di depurazione, quali impianti al servizio di aree industriali o piattaforme per scarichi di difficile trattabilità, era stata fortemente voluta sin dall’inizio per i molti vantaggi che tale soluzione comportava: maggiore continuità ed affidabilità di esercizio; possibilità di impiegare tecnologie di tipo avanzato, insostenibili in proprio dai singoli insediamenti; sensibile riduzione dei costi unitari di trattamento; migliore trattabilità dello scarico complessivo; maggiori garanzie di controllo e minor impatto ambientale globale. In definitiva è stato anticipato alla fine degli anni ’70 il modello depurativo indicato successivamente nella normativa europea. II settore conciario, dunque, oltre a mostrarsi prontissimo negli adeguamenti tecnologici, sapientemente miscelati alle raffinate lavorazioni tradizionali, ha intuito la necessità di impegnarsi attivamente, attraverso l'azione dell'associazione di categoria, nella realizzazione delle infrastrutture necessarie a garantire la tenuta produttiva, tra le quali hanno assunto particolare rilievo le iniziative tese al recupero e alla tutela ambientale. Nel 1980, finanziato dalle imprese locali, nasce, infatti, il Consorzio Cuoio-Depur S.p.A., con l'obiettivo di realizzare e gestire il programma di adeguamento degli scarichi liquidi di lavorazione alle normative ambientali vigenti.
I sistemi di depurazione realizzati raccolgono e trattano le acque reflue, 6.000 mc/giorno, di tutti gli insediamenti industriali del territorio e le acque nere di civile abitazione per una portata media di 3.500 mc/giorno. II carico organico complessivo è stimato in 800.000 abitanti equivalenti.  Il depuratore centralizzato, terminale del sistema di raccolta delle acque, ha richiesto a suo tempo investimenti non attualizzati per oltre 50 miliardi di lire. L’impianto, recentemente aggiornato sulla base di dati ricavati da accurate ricerche su scala pilota, realizza linee di processo molto articolate e complesse, utilizzando le apparecchiature e le tecnologie più avanzate, tanto da renderlo un punto di riferimento per tecnici ed operatori del settore. Le diverse fasi cono gestite da un sistema informatico centrale che rileva ed elabora in tempo reale i dati relativi alla funzionalità delle apparecchiature, i principali parametri di processo, la quantità e la qualità dei liquami scaricati dalle imprese, i dati di monitoraggio delle emissioni per il controllo dell'impatto ambientale. L'attenta gestione delle strutture consente di realizzare elevati rendimenti di depurazione, con un abbattimento del carico inquinante in ingresso superiore al 98%, pertanto le acque usate vengono restituite all'ambiente con caratteristiche qualitative tali da consentire il loro sicuro reinserimento nei cicli biologici naturali. Non è per ciò un caso se, dopo la realizzazione dell'impianto di depurazione, il fiume Arno presenta a valle caratteristiche qualitative migliori che a monte del Comprensorio del Cuoio.
Anche le emissioni nell’atmosfera sono ridotte al minimo e costantemente monitorate. Una Commissione Tecnica Provinciale per l’Esame della Qualità dell’Aria del Comprensorio del Cuoio”, ha l’incarico di analizzare e valutare i dati resi disponibili dai rilevamenti della rete di monitoraggio gestita dall’ARPAT e proporre interventi e soluzioni impiantistiche tese a diminuire i livelli di emissioni gassose nell’atmosfera.
Anche per i residui solidi sono stati realizzati dei programmi che chiudono a tutti gli effetti il ciclo del recupero.
In questa ottica è stato elaborato il programma degli smaltimenti alternativi che si pone come obiettivo la realizzazione di una piattaforma integrata per il riutilizzo e lo smaltimento del fango prodotto nella depurazione delle acque, che si articola su più linee funzionali in cui la discarica assume un ruolo residuale. Fa parte del programma la realizzazione dell’impianto di Ecoespanso, che trasforma i fanghi prodotti dai tre impianti di depurazione della riva destra del fiume Arno in granulato e sabbia leggera inerte riutilizzabile nella produzione di materiali per le costruzioni e la realizzazione delle linee di essiccazione che trasformano i fanghi prodotti dal depuratore Cuoiodepur, miscelati con sottoprodotti della lavorazione conciaria, in fertilizzanti con caratteristiche di concime organo-azotato per il riuso in agricoltura. Di particolare interesse è il “Pellicino integrato”. Si tratta di un fertilizzante azotato con un alto contenuto di materia organica digeribile. Una quantità di 26000 tonnellate all’anno di fanghi (quanti ne produce la Cuoiodepur) può essere riutilizzata nella produzione di Pellicino Integrato e 12000 tonnellate all’anno di rifiuto solido delle concerie sarà impiegato per ottenere le farine organiche, permettendo una riduzione rilevante di emissioni che producono l’effetto serra, percolato, inquinamento del suolo e un aumento di presenza organica nel suolo. E’ stato inoltre calcolato che oltre 100 anni di utilizzo di “compost”, (simile al Pellicino integrato) consentirà la riduzione di 54kg di CO2 equivalente per tonnellata di compost utilizzato. L’uso di fertilizzanti organici in agricoltura potrà perciò contribuire alla riduzione della presenza di carbonio e l’inquinamento dell’aria. Lo smaltimento del fango e dei rifiuti produce un percolato inquinante e biogas. Il riciclo dei fanghi e del loro rifiuto solido delle concerie per la produzione del Pellicino integrato contribuisce non solo alla riduzione delle emissioni che producono l’effetto serra, ma anche al ritorno delle sostanze organiche nel suolo.

© Riccardo Buti e Fabrizio Mandorlini - Oro Bianco. Il Tartufo di San Miniato - Fm Edizioni


Un filtro tra l’uomo e l’ambiente: il sistema di depurazione delle acque


Un processo di forte industrializzazione, come quello avvenuto nel Comprensorio del Cuoio dal dopoguerra, ha comportato, in analogia a qualsiasi processo di questo genere, un forte impatto ambientale. Per far fronte alla domanda di disinquinamento delle acque e per superare quelle problematiche tipiche delle zone ad alta densità industriale, sono stati realizzati quattro centri per la depurazione delle acque dotati di strutture tra le più complesse ed efficienti d’Italia.
Mentre la politica ambientale in quegli anni tendeva ad esasperare i trattamenti a piè di fabbrica, la realizzazione di strutture centralizzate di depurazione, quali impianti al servizio di aree industriali o piattaforme per scarichi di difficile trattabilità, era stata fortemente voluta sin dall’inizio per i molti vantaggi che tale soluzione comportava: maggiore continuità ed affidabilità di esercizio, possibilità di impiegare tecnologie di tipo avanzato insostenibili in proprio dai singoli insediamenti, sensibile riduzione dei costi unitari di trattamento, migliore trattabilità dello scarico complessivo, maggiori garanzie di controllo e minor impatto ambientale globale. In definitiva è stato anticipato alla fine degli anni Settanta il modello depurativo indicato più recentemente dalla normativa europea.
II settore conciario, dunque, oltre a mostrarsi prontissimo negli adeguamenti tecnologici, sapientemente miscelati alle raffinate lavorazioni tradizionali, ha intuito la necessità di impegnarsi attivamente, attraverso l'azione dell'associazione di categoria, nella realizzazione delle infrastrutture necessarie a garantire la tenuta produttiva, tra le quali hanno assunto particolare rilievo le iniziative tese al recupero e alla tutela ambientale. Nel 1980, finanziato dalle imprese locali, nasce, infatti, il Consorzio Cuoio-Depur S.p.A., con l'obiettivo di realizzare e gestire il programma di adeguamento degli scarichi liquidi di lavorazione alle normative ambientali vigenti.
I sistemi di depurazione realizzati raccolgono e trattano le acque
reflue, 6.000 mc/giorno, di tutti gli insediamenti industriali del territorio sulla riva sinistra dell’Arno e le acque nere di civili abitazioni per una portata media di 3.500 mc/giorno.
II carico organico complessivo è stimato in 800.000 abitanti equivalenti.
Il depuratore centralizzato, terminale del sistema di raccolta delle acque, ha richiesto a suo tempo investimenti non attualizzati per oltre 60 milioni di euro.
L’impianto, recentemente aggiornato sulla base di dati ricavati da accurate ricerche su scala pilota, realizza linee di processo molto articolate e complesse, utilizzando le apparecchiature e le tecnologie più avanzate, tanto da renderlo un punto di riferimento per tecnici ed operatori del settore.
Le diverse fasi sono gestite da un sistema informatico centrale che rileva ed elabora in tempo reale i dati relativi alla funzionalità delle apparecchiature, i principali parametri di processo, la quantità e la qualità dei liquami scaricati dalle imprese, i dati di monitoraggio delle emissioni per il controllo dell'impatto ambientale.
L'attenta gestione delle strutture consente di realizzare elevati rendimenti di depurazione, con un abbattimento del carico inquinante in ingresso superiore al 98%, pertanto le acque usate vengono restituite all'ambiente con caratteristiche qualitative tali da consentire il loro sicuro reinserimento nei cicli biologici naturali. Non è per ciò un caso se, dopo la realizzazione dell'impianto di depurazione, il fiume Arno presenta a valle caratteristiche qualitative migliori che a monte del Comprensorio del Cuoio.
Anche le emissioni nell’atmosfera sono state ridotte al minimo e costantemente monitorate.
Una “Commissione Tecnica Provinciale per l’Esame della Qualità dell’Aria del Comprensorio del Cuoio”, ha collaborato con il consorzio nell’analisi dei dati resi disponibili dai rilevamenti della rete di monitoraggio gestita dall’ARPAT, per individuare interventi e soluzioni impiantistiche tese a diminuire i livelli di emissioni gassose nell’atmosfera.


I fanghi diventano risorsa per l’agricoltura


La conceria è di per se da considerarsi un’industria che riutilizza e ricicla rifiuti, infatti lavora  uno scarto (la pelle grezza), derivante dall’attività antropica di macellazione degli animali per motivi alimentari, e lo trasforma in un prodotto pregiato. Sarà per questa vocazione  al riutilizzo che anche per i residui solidi, derivanti a loro volta dalla lavorazione e dalla depurazione delle acque, sono stati pensati e realizzati  programmi tesi  a tutti gli effetti al recupero e riciclo di tutte le risorse della filiera produttiva. In questa ottica è stato elaborato il progetto  degli smaltimenti alternativi che si pone come obiettivo la realizzazione di una piattaforma integrata per il riutilizzo e lo smaltimento del fango prodotto nella depurazione delle acque in miscela con sottoprodotti della lavorazione conciaria, che si articola su più linee funzionali, in cui la discarica assume un ruolo esclusivamente residuale. Fa parte del programma la realizzazione delle linee di essiccazione che trasformano i fanghi prodotti dal depuratore Cuoiodepur, miscelati con sottoprodotti della lavorazione conciaria, in fertilizzanti con caratteristiche di concime organo-azotato per il riuso in agricoltura. Di particolare interesse è il “Pellicino integrato” ottenuto dai fanghi in miscela con pellicino (pelli e crini). Si tratta di un fertilizzante azotato (4%) con un alto contenuto di materia organica “nobile” di origine proteica, facilmente biodegradabile. Il prodotto, a seguito di ricerche e sperimentazioni ventennali, condotte in collaborazione con i più accreditati istituti universitari, è stato inserito tra i fertilizzanti riconosciuti dalla normativa italiana, d.lgs. 29 aprile 2006, n.217. Attualmente una quantità di 25.000 tonnellate all’anno di fanghi (quanti ne produce la Cuoiodepur) in miscela con opportuni sottoprodotti è trasformata in Pellicino Integrato e suoi derivati per la vendita e l’utilizzo agricolo. La necessità di reintegro di nutrienti e particolarmente di sostanza organica nel terreno è ancora più accentuata dalla pratica agricola moderna, caratterizzata da coltivazioni intensive  e spesso monocolturali ma soprattutto dalla scomparsa dell’uso del letame, sottoprodotto dell’allevamento dei bovini. Il riciclo della sostanza organica nel terreno costituisce un prezioso strumento per combattere i fenomeni di erosione e di desertificazione. E’ stato calcolato che oltre 100 anni di utilizzo di “compost”, (simile al Pellicino integrato) consentirà la riduzione di 54kg di CO2 equivalente per tonnellata di prodotto utilizzato. L’uso di fertilizzanti organici in agricoltura potrà perciò contribuire alla riduzione dell’inquinamento dell’aria attraverso le minori emissioni di gas che producono l’effetto serra. Al contrario, in assenza di riuso, lo smaltimento del fango di depurazione e dei rifiuti solidi, oltre a determinare inevitabilmente delle profonde ferite  nel territorio per la realizzazione delle discariche necessarie,  produce un percolato inquinante che ha bisogno di essere depurato e biogas che deve essere invece bruciato.

© Riccardo Buti e Fabrizio Mandorlini - Oro Bianco. Il Tartufo di San Miniato - Fm Edizioni

La ricerca quale essenziale strumento di lavoro


L’evoluzione della ricerca e della  sperimentazione di tecnologie all’avanguardia sviluppata dal Consorzio Cuoiodepur ha raggiunto la sua massima espressione operativa con la realizzazione di un laboratorio permanente congiunto con il Dipartimento di Ingegneria Civile e Ambientale dell’Università di Firenze e con la partecipazione del Polo Tecnologico (POTECO Scrl). Il laboratorio CER2CO (Centro di Ricerca Reflui Conciari) nasce nel 2008 come strumento per promuovere e valorizzare l’intensa attività di collaborazione che, dall’inizio del 2000, vede i promotori impegnati in numerose ricerche congiunte. Il Centro ha sede presso l’impianto di depurazione ed è costituito da un’area per le installazioni di impianti a scala pilota e da locali attrezzati per le analisi chimiche e biologiche e per le indagini a scala di laboratorio, in cui operano continuamente ricercatori dell’Università (nei diversi anni hanno partecipato 39 studiosi tra tirocinanti, dottorandi e ingegneri ambientali) e tecnici del consorzio.
L’equipaggiamento del Centro include sei installazioni permanenti a scala pilota idonee per lo studio di processi di trattamento dei reflui liquidi e gassosi e strumentazioni analitiche d’avanguardia per la caratterizzazione e il monitoraggio dei processi.
Il lavoro di ricerca svolto ha avuto come principali obiettivi l’ottimizzazione dell’attuale filiera di trattamento dei reflui conciari, con particolare riferimento al risparmio energetico e all’ottimizzazione dell’uso di prodotti chimici, lo studio di processi innovativi per il trattamento delle acque, dei fanghi e delle emissioni gassose. I risultati ottenuti, che costituiscono un notevole bagaglio scientifico, sono divulgati e documentati in 26 tesi di laurea di primo e di secondo livello, una tesi di dottorato, 17 pubblicazioni su riviste nazionali e internazionali, 12 pubblicazioni su atti di convegno. Molte delle sperimentazioni effettuate sono state oggetto di cofinanziamento con fondi pubblici per l’interesse collettivo degli obiettivi. Recentemente è stato ottenuto un cofinanziamento dalla Comunità Europea a valere su fondi LIFE+ per  il progetto “BIOSUR” che prevede la realizzazione e l’esercizio sperimentale di un prototipo di reattore biologico per il trattamento delle emissioni odorigene, in particolare per l’abbattimento dell’idrogeno solforato. Il BIOSUR è frutto delle attività sperimentali e delle ricerche svolte nel CER2CO e verrà sviluppato a livello industriale in collaborazione con il Dipartimento di Biologia dell’Università di Pisa e la ditta Italprogetti Engineering Spa. L’obiettivo del progetto, malgrado gli ottimi risultati ottenuti con l’attuale piattaforma di trattamento chimico delle emissioni, sarà quello di dimostrare e promuovere a livello europeo l’applicabilità di una soluzione innovativa per la mitigazione dell’impatto ambientale. Il carattere innovativo della tecnologia consiste anche nella peculiare tipologia del reattore, che richiama per certi aspetti il modello del bottale usato in conceria, un bireattore a letto mobile rotante in grado di raggiungere elevati rendimenti, unico nel suo genere in quanto i sistemi biologici esistenti sono caratterizzati da un rapido decadimento dei rendimenti. Se i risultati ottenuti a livello di laboratorio saranno confermati su scala industriale, sarà possibile contenere ulteriormente l’impatto ambientale con un minor consumo di prodotti chimici e un minor consumo di energia elettrica, rispetto alla tecnologia attualmente impiegata.