Nei secoli passati la tradizione dice che per trovare i tartufi veniva utilizzato il fiuto dei maiali, poi, a fine Ottocento, alcuni emiliani e romagnoli, soprattutto tagliaboschi, avevano rapporti commerciali con Pisa e Firenze, e fermandosi a San Miniato per lavoro, conobbero questo territorio.
Scendendo con i loro cani andavano a fare tartufi e poi lasciavano i loro cani alle famiglie contadine della zona. Fu così che i contadini locali impararono l’arte di andare a far tartufi con il cane e incrementare così i loro miseri guadagni, pur essendo, a quei giorni il tartufo un bene considerato di scarso valore.
Le storie di queste famiglie sono legate indissolubilmente non solo agli uomini ma anche a quei cani che fedelmente si accompagnano al loro padrone alla ricerca di un tesoro nascosto nel sottobosco delle colline sanminiatesi.
Il lavoro della cerca è infatti l’espressione massima dell’armonia tra uomo e cane, un rapporto ancestrale in cui si condividono amicizia, fatica, disagi (ci si alza molto presto la mattina e la ricerca si effettua nel freddo dei mesi invernali) e che trasforma il cane nella proiezione del tartufaio, un suo prolungamento fisico e psichico.
Nell’addestramento il cane vive l’esperienza all’inizio come un gioco, poi crescendo la sviluppa nel suo istinto innato, la caccia, istinto indirizzato in questo caso non verso una preda ma verso il prezioso tubero. Per questo gli allevatori, secondo una tecnica affinata con l’esperienza, abituano il cane fin da piccolo all’odore del tartufo associandolo con il cibo e con la ricompensa, comunque commestibile: quando il cane sente l’odore del tartufo deve associarlo al cibo, un tempo era un pezzo di pane oggi un biscotto, comunque un premio per il successo della ricerca. Successivamente si nascondono dei piccoli tartufi a fior di terra e si incomincia a insegnargli a trovarli; ma il vero battesimo avviene in bosco dove il cane deve concretizzare quello che ha imparato. Spesso al cane giovane viene affiancato un cane più esperto, affinchè imiti quello che fa quest’ultimo.
Le prime uscite a volte sono effettuate sulla “marcia”, ossia le produzioni di Tartufo Bianco fuori stagione (luglio – agosto), di scarsa qualità che marcisce subito per le alte temperature (da cui deriva il nome) e che non viene raccolto ma serve solo per l’addestramento, altre volte la ricerca viene perfezionata sul marzuolo, tartufo di scarso pregio ma che ha produzioni numericamente elevate e quindi abitua il cane alla ricerca.
Cosa fondamentale che tutti gli allevatori devono tenere presente nella fase di addestramento, ma che anche i tartufai non devono dimenticare nella ricerca in bosco, è che ogni cane ha la sua psicologia e il suo modo di agire, sia nella cerca che in ogni altro comportamento. E’ fondamentale pertanto che il padrone si adatti al cane e non viceversa. Quando il cane inizia la sua caccia e si avvicina alla ”preda”, secondo un rituale tutto proprio, pianta il muso nella terra, annusa tra i cespugli, torna sui suoi passi e poi annusa ancora. All’improvviso l’olfatto e l’istinto lo fanno andare nel posto giusto, inizia a raspare, a guaire, a girare in tondo per richiamare l’attenzione del suo padrone. Il tartufaio che conosce il proprio cane percepisce il segnale e arriva, inizia a zappare con dolcezza e crea una piccola buca. Ci sono cani che aspettano accanto il momento in cui l’uomo estrarrà il tartufo con le mani, lo annuserà e percepirà il suo intenso profumo, ci sono poi cani che con il tartufaio scatenano una competizione a chi lo scopre prima e tenerlo lontano è lotta improba.
E così per anni cane e tartufaio si incamminano su sentieri che solo loro conoscono, tracciati dall’esperienza che li conduce tra settembre e dicembre in una sfida entusiasmante, fino alla fine della carriera, allorquando, dopo l’ultimo tartufo trovato, The Last Hurrah, ormai non più adatto a sopportare le fatiche della ricerca, viene accudito e curato amorevolmente fino agli ultimi giorni.
Per quanto riguarda le razze riconosciute per la ricerca del tartufo e come tali iscritte ai libri genealogici attualmente ce n’è solo una: il Lagotto romagnolo. La razza è stata iscritta all’Ente Nazionale per la Cinofilia in Italia nel 1992 e alla Fédération Cynologique Internationale nel 2005. Molto interessante in proposito è confrontare lo standard di razza del Lagotto con quello dei cani ritratti a San Miniato nelle fotografie di fine Ottocento.
A livello locale molto utilizzati dai tartufai anche cani meticci dall’incerto pedigree o soggetti di razze cosiddette autoctone o locali: questi cani hanno un aspetto complessivamente uniforme, ma con caratteristiche non stabili e standard variabile, e pertanto non sono razze riconosciute; ciò che li accomuna è la discendenza da linee di sangue di ottimi cercatori. La taglia di questi cani è medio – piccola con un aspetto che a volte ricorda il lagotto, anche per il pelo riccio o spigato, altre volte l’Epagneul breton.
Per la ricerca del tartufo si possano inoltre impiegare anche altre razze, i cani più adatti sono il Barbone, il Pointer, lo Spinone, il Bracco italiano, varie specie di Terrier, il Griffone e il Labrador.
Guardare all’opera il tartufaio ed il suo cane è l’unico modo per comprendere quale è la sintonia e l’intesa che si crea tra uomo e animale ma soprattutto si capisce che solo se esiste questo legame è possibile trovare quei tartufi che poi andranno a finire sulle nostre tavole. Il cane da tartufi più noto e famoso si chiamava Parigi e fiutò nell’autunno del 1954 il tartufo più grosso del mondo: un tartufone di 2 chili e 18 tacche.
© Riccardo Buti e Fabrizio Mandorlini - Oro Bianco. Il Tartufo di San Miniato - Fm Edizioni