Il Tartufaio è una figura unica
E’ abbastanza facile trovare riferimenti al Tartufo nella storia e nella letteratura, come descrizione, ricette, ma la ricerca del Tartufo Bianco a San Miniato non è altrettanto antica. Dai ricordi tramandatici sappiamo che da sempre nei boschi, ma anche lungo i fossi di scolo e i campi coltivati, venivano trovati questi tuberi, soprattutto dai maiali che ne erano ghiotti e che, grufolando liberi, ne facevano delle vere scorpacciate.
Fra la fine ‘800 e l’inizio ‘900 per vari motivi arrivarono in questa parte del territorio personaggi provenienti dalla Romagna. Forse erano taglialegna oppure operai esperti in bonifica, fatto sta che questi a un certo punto portarono i loro cani, quasi certamente progenitori degli attuali Lagotto, cani “specializzati” nella caccia in ambienti paludosi e nella ricerca, e cominciarono a cercare nella zona il tartufo che era molto diffuso grazie anche alle tecniche di coltivazione che venivano attuate, essendo la campagna organizzata con il sistema della mezzadria. Erano anni in cui in quasi tutti i botrelli, in quasi tutti i fossi, anche dei campi coltivati, sotto quasi tutte le piante idonee alla micorrizzazione, era possibile trovare tartufi.
I nomi, ma soprattutto i soprannomi, secondo l’usanza tipica del passato, di alcuni di questi sono ormai entrati nella storia di San Miniato: Tego, Paolo, Stagnazza, Giacchetta...
I trasporti in quegli anni erano difficili e non privi di rischi, pertanto quando rientravano al loro paese questi forestieri lasciavano i loro cani presso le famiglie del luogo, che li accudivano fino al loro ritorno nell’anno successivo. Ovviamente le famiglie ospitanti, viste le capacità dei cani, cominciarono ad incrociarli con i cani del posto e ad andare a loro volta a far tartufi.
Il primo tartufaio del posto era pertanto il contadino impiegato come mezzadro in fattoria, molto legato al territorio che non aveva bisogno di spostarsi se non di pochissimo.
L’attività si sviluppò e in ogni famiglia residente nei numerosi borghi di San Miniato si trovava sempre una figura di tartufaio, attività che costituiva una fonte di integrazione del misero reddito come la tenuta di polli o galline per vendere la carne o le uova, e procurarsi il necessario per la carne la domenica, un paio di scarpe nuove, la dote alla figlia.
C’è da dire che l’appellativo di tartufaio non dava in quel periodo un particolare lustro, anzi il tartufaio era considerato spesso un poveraccio, perché in un periodo in cui c’erano da compiere i principali lavori nei campi (siamo fra settembre e dicembre) con il freddo e le gelate questo si alzava prestissimo per andare a tartufi per pochi soldi.
Nel secondo dopoguerra e più precisamente negli anni Sessanta il sistema mezzadrile entra in crisi, l’industria assorbe la maggior parte della forza lavoro proveniente dalle campagne e di conseguenza il tartufaio non è più il mezzadro, ma è l’operaio cui è rimasta la passione e quindi continua ad andare a tartufi, come continua ad andare a caccia o a pesca.
Nel tempo la figura del tartufaio è ulteriormente mutata e questo a partire dagli anni Ottanta. La promozione del tartufo, una più sviluppata coscienza ambientale, la necessità di riscoprire la natura, mista ad una sfida che ha qualcosa di misterioso ed appassionante han fatto in modo che alla ricerca del tartufo si siano avvicinate anche persone che tradizionalmente erano lontane da questo mondo: il cercatore di tartufi abita in paese o in città e per andare a tartufi prende le ferie oppure limita le sue uscite al sabato o alla domenica. Spesso l’approccio alla ricerca si limita alle prime fasi, ossia la richiesta di abilitazione alla ricerca e il suo conseguimento. Molti infatti sono coloro che, una volta ottenuta l’abilitazione, non richiedono il rilascio del tesserino; inoltre molti che lo ottengono dopo poco cessano l’attività. Attualmente la Legge Regionale n. 50 dell’11 aprile 1995, prevede infatti che l’aspirante tartufaio debba sostenere un esame di fronte a una apposita commissione costituita presso l’amministrazione provinciale di residenza, commissione che ne accerta l’idoneità, in particolare riguardo alla conoscenza della biologia del tartufo, a nozioni di botanica, alla normativa vigente e alle tecniche di raccolta. Una volta conseguita l’idoneità il tartufaio “in pectore” richiede al comune di residenza il rilascio del tesserino che sancisce il diritto ad effettuare la ricerca.
Oggi il tartufaio è anzitutto un grande “passionista” e per questa passione supera i disagi e gli impegni che la stessa comporta a fronte della soddisfazione di “bucare” e sentire prima ancora di vederlo, l’inconfondibile odore del prezioso tubero; inoltre, al di là di quello che le norme stabiliscono, compreso le sanzioni nei casi di infrazione, il vero tartufaio ha una grande sensibilità verso l’ambiente, sensibilità che lo porta ad adottare i comportamenti rispettosi: è quindi poco invasivo nelle sue uscite perché sa che l’ambiente del Tartufo Bianco è delicato, non danneggia il terreno o la vegetazione perché conosce le negative ripercussioni sulla produzione, ricopre le buche perché è consapevole che sotto c’è il micelio, “la funga”, che produce il tartufo e che lasciando la buca scoperta questa secca, tiene il cane sotto controllo perché il cane che raspa lontano dal padrone non è controllabile, si “vòta” (in italiano “si svuota”) le tasche all’inizio di ogni uscita dei pezzetti di tartufo che ci sono rimasti nella speranza che la disseminazione delle spore favorisca l’insediamento di nuove tartufaie, se vede un pezzo di legno di traverso a un fosso lo rimuove perché l’acqua deve correre e non ristagnare, e tanti altri comportamenti virtuosi che, nel folto della macchia, nessuno può controllare, se non lo stesso vero tartufaio.